In attesa dello storico evento della Coppa Sabatini di Peccioli, che sarà presentato breve, riviviamo l’atmosfera della competizione grazie al toccante ricordo di Silvano Crecchi: «Simonetti alla Coppa Sabatini: era il 1973».
PECCIOLI – In attesa dello storico evento della Coppa Sabatini di Peccioli che sarà presentato a breve nella sua settantatreesima edizione, riviviamo l’atmosfera della competizione grazie al toccante ricordo di Silvano Crecchi, sindaco di Peccioli dal 2004 al 2014.
Crecchi ha infatti concesso a VTrend.it la pubblicazione di un racconto scritto pochi anni fa nel quale si citano l’emozione, la tradizione e la passione che animavano, come animano tutt’ora, il paese in occasione della celebre corsa ciclistica. All’epoca dei fatti, Crecchi era un bambino di appena 10 anni.
SIMONETTI ALLA COPPA SABATINI: ERA IL 1973
«Peccioli non era nuovo ai grandi eventi sportivi e questo lo si imparava fin da piccoli. I bambini di Peccioli, in verità, nascevano come in tutti gli altri paesi del mondo e crescevano serenamente con il latte dei rigonfi petti delle loro floride mamme.
Allo svezzamento, caso mai, sperimentando alcune peculiarità gastronomiche del luogo nativo, si imbattevano tutti nel pane “unto” col pomodoro, buonissimo, che non avrebbero più abbandonato e anzi per almeno due generazioni tramandato così, come incrociavano il loro destino con il famigerato “corollo”, dolce compatto e più asciutto di un accappatoio da bagno fresco di “corredo” per approdare alla ipervitaminica zuppa di cavolo con “cipolla cruda di serie” e qualcuno addirittura a un bel “gotto” di vino rosso somministrato in tenerissima età, che ai bimbi si diceva “facesse sangue”, mentre ai babbi conferiva andatura barcollante, parlantina sciolta e severi peggioramenti di umore delle loro consorti.
Ma oltre ai tradizionali e frugali nutrimenti del corpo, i bimbi di Peccioli di qualche tempo fa venivano alimentati nello spirito con dosi massicce di tradizione ciclistica. Peccioli era infatti teatro della Coppa Sabatini, anzi più precisamente di quella fantastica accoppiata autunnale tanto cara a noi bimbi costituita dalla fiera annuale e dalla corsa ciclistica.
La qual cosa potrebbe oggi efficacemente sintetizzarsi in “giocattolo del banco” e cappellino della “Scic” o della “Salvarani” (alcuni degli sponsor di quei tempi) oppure in “tronchetti di zucchero compatto con spirali alla menta e ferrosa acqua di pubblica fontana bevuta dalla borraccia di plastica dei ciclisti rinvenuta sul ciglio della strada o nelle fosse il giorno seguente la gara”.
Eravamo precocemente esperti in una disciplina sportiva che altrove infiammava di passione soltanto gli adulti e questo era certamente dovuto allo straordinario privilegio di conoscere non solo il ciclismo, ma soprattutto i “corridori”.
Noi li conoscevamo di persona perché ogni anno si davano convegno proprio a Peccioli e circolavano gaudenti per le nostre vie, chi con due fette di pane col “melone” avvolte nella carta gialla, chi con un “vissuto” fiasco di vino genuino gentilmente offerto e da sbicchierare con i compagni di squadra sugli scalini della chiesa, chi seduto al tavolino di un bar con un cappuccino fumante ed altri serenamente rassegnati al colossale bagno di folla al quale era impossibile sottrarsi.
Quelli erano i nostri corridori, gli stessi campioni che animavano le folle su tutte le strade del mondo e che, una volta all’anno, per arcana magia, stazionavano per le altrettante misteriose operazioni di “punzonatura” all’interno del fumoso e giallastro locale del circolo dei Combattenti, che dormivano nelle case degli organizzatori e di tanti altri pecciolesi, che si potevano avvicinare, se si riusciva ad eludere la manesca sorveglianza degli organizzatori del tempo, per raccogliere un autografo sui nostri piccoli notes a quadretti acquistati appositamente il giorno prima.
È fuor di dubbio che tanta prossimità a questo sport di eccezionale bellezza condizionava decisamente anche i nostri giochi quotidiani.
Mi capita ancora qualche volta di pensare con nostalgia alla reticella che conteneva le palline di plastica con la foto interna di un corridore, le stesse con le quali disputavamo interminabili gare ciclistiche simulate sulla sabbia.
Per giocare alle corse con le palline i bambini del centro storico non avevano che da aspettare l’inizio di qualche lavoro edile che comportasse la necessità di un bel mucchio di “rena” appoggiato a un muro. Non serviva altro, se non la nostra innata e prodigiosa immaginazione.
Si tracciava con le mani una bella pista provvista di curve, discese, salite, gallerie, rettilinei e striscione d’arrivo; poi, a turno, con lo scatto del dito medio precedentemente compresso sul pollice, si dava la spinta alla pallina lungo il percorso sabbioso per una entusiasmante corsa ciclistica.
Giorno dopo giorno, in maniera direttamente proporzionale allo stato di avanzamento dei lavori, la pista si riduceva finché il mucchio di rena scompariva, la passione sfumava e tornava ad accendersi soltanto se il benevolo artigiano del momento decideva di informarci sui suoi prossimi impegni di lavoro e dunque sulla probabile localizzazione di un nuovo cumulo di sabbia.
Tra i tanti ricordi legati alla Coppa Sabatini, uno si impone per un simpatico gioco del destino.
Ricordo ancora lo sconforto e la rabbia per quella che all’epoca, era l’anno 1973, ho vissuto come un’esecrabile ingiustizia e la susseguente gioia per il formidabile risarcimento che mi venne in dono da un magnanimo destino sportivo.
Per l’intero pomeriggio autunnale della vigilia della corsa avevo riempito il mio notes con gli autografi dei campioni più noti del periodo e, svariate volte, avevo difeso onore e fogli a quadretti dai provvedimenti di impropria disciplina adottati da alcuni degli organizzatori più zelanti.
Ad un certo punto, per mia malasorte, non ero riuscito a sottrarmi al controllo di un adulto il quale, strattonatomi secondo il suo personale senso di giustizia, mi aveva allontanato dal corridore di turno per l’ennesimo autografo e mi aveva strappato dalle mani il notes per ridurlo a brandelli e gettarne i poveri resti in un infimo cestino di plastica.
Piangente, nell’indifferenza di tutti, avevo frugato mestamente in quel secchio potendo salvare solo una paginetta spiegazzata sulla quale, con grafia leggibile, campeggiava il cognome di un corridore: un certo Simonetti.
Il Sig. Simonetti, corridore della Coppa Sabatini, mi era purtroppo completamente ignoto. Non era certamente il suo autografo quello che avrei voluto salvare tra i tanti che avevo raccolto e quella circostanza, anziché produrre gli effetti consolatori sperati, mi procurava un forte supplemento di rabbia e delusione.
Ma venne il giorno seguente e con esso il soccorso di una superba e radiosa giustizia. La gara era all’epilogo!
Busti, arti, teste di spettatori sporgevano convulsamente dalle transenne sulla dirittura d’arrivo e nel tripudio generale una figura colorata tagliava il traguardo a mani alzate.
Di seguito la collettiva concitazione del risultato, il diffondersi della notizia, incredibile, impensabile: HA VINTO SIMONETTI!
Non riuscivo a credere a ciò che stavo vivendo nell’ingenuità dei miei dieci anni d’età! Aveva davvero vinto Simonetti, il mio “sig. nessuno” il cui cognome, scritto di suo pugno, ingiustamente maltrattato ma superstite, “viveva” ancora sul mio foglietto sgualcito, al sicuro nella tasca dei miei pantaloni di bimbo.
Aveva vinto Simonetti, il corridore che mai avrebbe saputo che la vittoria più grande era stata la mia: quella della mia innocenza di bimbo sulla stupida supremazia di un adulto».
