Di seguito la nona puntata del racconto giallo “Tony e le Ciliegie Rosse”.
Ecco la nona puntata di “Tony e le Ciliegie Rosse” (in esclusiva per i lettori di VTrend.it) di Giuseppe Vecchio, noto e rinomato scrittore.
“Ascoltai l’invito di Angelo, ma senza dargli troppa soddisfazione, feci in modo, volgendogli le spalle, che non potesse guardarmi in volto né vedere i movimenti delle mie mani. La accarezzai, come si accarezza una donna viva. Cosa volevo? Che cercavo? Poi mi fermai, poggiando, il solo palmo della mano destra sul suo petto, molto vicino al cuore. Volevo farla tornare in vita, volevo che mi potesse raccontare lei gli ultimi momenti della sua vita, volevo l’impossibile, volevo la vita dove c’era la morte.
Sentivo che Angelo stava parlando, o da solo, o rivolto a me, io, invece, pensavo solo a Melyssa, al suo corpo candido, al destino che recide, pur senza crudeltà, il filo che ci lega alla vita, è solo un filo, spesso esile, facile da essere tagliato, la vita è breve, leggiadra, l’ombra di qualcosa che resta un mistero.
Questo era l’effetto che mi faceva la morte, la bellezza, Melyssa, tre parole, tre cose, un solo cadavere steso, supino, su uno dei tanti lettini dell’obitorio. Dovevo andare via, dovevo tornare a respirare. Dovevo fumare, bere, mangiare qualcosa di gustoso.
La morte, sui vivi, ha un effetto strano, ti spinge verso la vita, per questo motivo, spesso, i funerali sono una specie di farsa, si parla, si ride, si fanno le battute, si spettegola sul morto come potesse ascoltare e replicare. Andai via rapidamente, senza salutare, come avrei dovuto, Angelo, non so perché, anche lui puzzava di morte, magari l’avrei chiamato più tardi, magari no.
Correvo con la mia JagX, ogni volta rischiavo d’uscire fuori strada, ogni volta mi sentivo bene solo se rischiavo di finire nel vuoto, oltre il muretto, basso e fragile. Ogni nuovo caso mi trasportava in un mondo sconosciuto, io per capire interpretavo tutti i protagonisti della storia, anche quelli marginali, ero preciso, minuzioso, non volevo che mi sfuggisse alcun particolare, io dovevo capire quello che gli altri non erano in grado di capire. Lo chiamano l’istinto del segugio, io mi sentivo un cane bastardo, invece, andavo avanti nell’indagine, sul caso, sulla fortuna, su un ricordo di qualcosa di simile che aveva attraversato la mia vita.
Su un ricordo di un ricordo. Correvo per pensare, mi faceva bene, la mente si liberava da ogni altra cosa, il mio segreto era questo, non mollare, non mollare mai la presa, ripetere, in modo ossessivo, ogni possibile passaggio, continuare a costruire un puzzle di cui non hai l’immagine finale, era questa parte del gioco che lo rendeva interessante, era la mia sola immaginazione che sopperiva a tutte le cose che non potevo conoscere, avevo tra le mani un pezzo del puzzle che poteva essere disposto ovunque.
In quel momento, dentro di me, accadeva qualcosa di straordinario. Qualcosa, ma cosa? Qualcosa faceva ruotare nel mio spazio interiore il pezzo del puzzle. Qualcosa mi guidava, in modo certo, a trovare il posto giusto, come se io conoscessi già l’immagine, il movente, l’assassino, l’arma del delitto, l’ora della morte. Era solo un’illusione, tutto spariva come era comparso, un attimo dopo. E io?”
… TO BE CONTINUED