Tratto da una chiacchierata con uno dei tanti operai che hanno vissuto gli eventi di 50 anni fa.
“Siamo prossimi a quel fatidico 4 novembre, che in tutta Italia significa Festa delle Forze Armate, ma che a Pontedera da 50 anni significa Alluvione.
Qualche tempo fa parlando di questo con l’amico Enzo Rocchi gli chiesi di raccontare ed appuntare alcuni suoi ricordi di quel giorno rimasto impresso nella memoria di tutti i Pontederesi.
Ne è nato questa racconto, meglio una piccola cronaca di quei due giorni, raccontata in prima persona dagli occhi di un operaio di 34 anni che lavorava in Piaggio.
La mattina del 4 novembre mi chiamò il dott. Zoli, medico ufficiale della Piaggio, chiedendomi di accompagnarlo a Montecatini per ricevere un riconoscimento. Quel giorno era festa nazionale. La fabbrica era chiusa ma lo feci comunque, lo facevo sempre quando me lo chiedeva. La cerimonia fu breve e il dott. Zoli non si perse in convenevoli e ripartimmo senza pranzare; mi sembrò strano. Al rientro in macchina, con il suo Maggiolino di colore giallo, il dottore mi sembrava turbato; al ritorno guidai velocemente entrando a Pontedera da Fuori del Ponte intorno alle 13.00.
Piaggio, chiedendomi di accompagnarlo a Montecatini per ricevere un riconoscimento. Quel giorno era festa nazionale. La fabbrica era chiusa ma lo feci comunque, lo facevo sempre quando me lo chiedeva. La cerimonia fu breve e il dott. Zoli non si perse in convenevoli e ripartimmo senza pranzare; mi sembrò strano. Al rientro in macchina, con il suo Maggiolino di colore giallo, il dottore mi sembrava turbato; al ritorno guidai velocemente entrando a Pontedera da Fuori del Ponte intorno alle 13.00.
Ci accorgemmo subito che qualcosa non andava bene, sospettammo che fosse successo qualcosa. Già dal giorno prima il livello dell’Arno era altissimo e, al mattino prima di partire per Montecatini c’era molta apprensione; si temeva che il fiume potesse rompere gli argini. Arrivati in via Veneto, si notavano le tante persone affacciate alle finestre che guardavano in su, verso il ponte della ferrovia.
Una piccola folla di gente si era concentrata all’incrocio in fondo alla discesa del Ponte Napoleonico verso viale Italia e questo aumentò le mie preoccupazioni, anche se mi sembrava strano che tutti guardassero verso l’Era e non verso l’Arno. Espressi le mie preoccupazioni spontaneamente la dottore che non mi rispose come di solito faceva durante i nostri viaggi in auto e continuò in quel inconsueto silenzio che durava dalla mattina. Effettivamente qualcosa stava succedendo, non l’Arno come tutti temevano, ma l’Era stava iniziando ad esondare proprio vicino al ponte della ferrovia.
Il dottore a questo punto non riuscì più a celare al sua ansia, ma con la sua consueta gentilezza, cercando di non far trasparire la sua inquietudine, mi chiese con voce rotta di accompagnarlo in Comune.
A Palazzo Stefanelli ad accoglierlo c’era il Sindaco, Giacomo Maccheroni, che, seppi dopo, aveva lanciato l’allarme in città pochi minuti prima, dopo che era arrivata la segnalazione che le acque dell’Arno avevano invaso Firenze. Probabilmente anche al dottore era arrivata la notizia mentre eravamo a Montecatini e nella sua testa cominciò a concretizzarsi il rischio di allagamento della fabbrica.
Arrivato in Comune mi chiese di lasciarlo a colloquio con il Sindaco, parcheggiai l’auto e tornai a casa a piedi. Abitavo al Villaggio e a quel tempo le gambe era buone!, in pochi minuti arrivai a casa; si erano fatte le due di pomeriggio o poco più. In città c’era un’aria tesa, ma nessuno aveva la percezione di quello che sarebbe potuto succedere. Il mondo scorreva come sempre, era festa, ma tutti, più o meno consapevolmente, avevano il fiato sospeso.
Ognuno però continuava a fare le cose che faceva normalmente. Eravamo nella settimana dedicata al ricordo dei defunti e mia moglie aveva preparato dei fiori per i nostri cari; appena aperto l’uscio di casa mi chiese di portarli al cimitero. Presi la mia macchina e mi diressi al cimitero passando da Viale Rinaldo Piaggio. Lì mi accorsi che la strada si stava allagando e che l’acqua arriva dritta da via IV novembre.
L’Era aveva rotto gli argini alla Montagnola.
Tornai subito indietro il più velocemente possibile fino ad arrivare all’altezza della portineria della direzione Piaggio. Istintivamente rallentai e rivolsi lo sguardo attraverso il cancello. Sulla porta c’erano alcuni uscieri che, vedendomi, si sbracciarono per chiedermi aiuto. Uno di loro si avvicinò a passo svelto e con ferma gentilezza mi chiese se potevo aiutarli a mettere dei sacchi di sabbia per salvaguardare documenti e oggetti che si trovavano a piano terra.
I nostri sguardi si incrociarono e ci sentimmo uniti dall’affetto, da un amore inconscio e mai espresso che avevamo per la nostra azienda. In quegli anni c’erano state le lotte, gli scioperi, la sentivamo davvero nostra; essa rappresentava il nostro lavoro, il nostro pane e la nostra dignità.
In quel momento comunque, un pensiero ancora più forte mi sovrastò: mia moglie era a casa sola e sicuramente l’acqua stava per arrivare anche lì o forse era già arrivata. Erano momenti concitati in cui le emozioni si sovrapponevano fino a mescolarsi lasciandomi nell’incertezza. Tornai comunque a casa, abitavamo ad un piano alto. Le raccontai rapidamente quello che stava succedendo, presi una giacca e mentre scendevo le scale le gridai che dovevo tornare in Piaggio perché lì la situazione era grave. Nella strada davanti al cancello della Direzione, che avevo lasciato solo qualche minuto prima, lo scenario era peggiorato notevolmente. I sacchi di sabbia erano assolutamente inefficaci e noi stessi, io e i miei colleghi, non potemmo far altro che rifugiarci negli uffici della Direzione.
Rimanemmo bloccati lì per tutta la notte; la corrente non c’era. Per fortuna, se così possiamo dire, trovammo due candele per illuminare la stanza dove ci eravamo rifugiati. Quella notte in cielo c’era una mezzaluna in fase calante, forse c’era anche qualche nuvola; quella poca luce lunare servì solo ad illuminare il fiume d’acqua che correva davanti a noi sulla strada.
L’acqua limacciosa portava con se oggetti di ogni tipo. Insieme a rami e tronchi raccolti chissà dove, trascinava con se tavoli, sedie e oggetti di uso quotidiano di ogni natura. Anche le auto venivano trascinate; alcune volte se ne scorgeva la capote, ma subito venivano risucchiate nei vortici e la melma le nascondeva alla nostra vista.
La cosa che ricordo con nitidezza era la colonna sonora di quello “spettacolo”. Al continuo gorgoglio delle acque si aggiungevano degli scoppi che si udivano arrivare dai vari reparti. Non sapevamo bene da cosa potessero dipendere ma, con il passare della notte, aumentava la certezza che anche la fabbrica era stata invasa dalle acque e la situazione doveva essere drammatica.
Alle prime luci dell’alba la situazione sembrava essersi calmata; il flusso dell’acqua si era fermato, tutto ristagnava e provammo a uscire dal nostro rifugio. La situazione era veramente drammatica; acqua alta e fango dappertutto. Uscire per le normali vie era impossibile e poi non si sapeva bene dove saremmo potuti andare. Era passata qualche ora e la luce del mattino illuminava l’enorme distesa d’acqua che si perdeva a vista d’occhio sotto la nostra finestra. Da lì scorgemmo un gommone, con due militari, che correva sul innaturale via d’acqua che aveva completamente sommerso l’asfalto stradale.
Io ed un mio collega decidemmo allora di provare a cogliere quell’inattesa occasione per portarci in salvo. Scendemmo giù. L’acqua, che arrivava fin sopra la cintola, era completamente limacciosa e non si riusciva a vedere dove si appoggiavano i piedi. Sembrava di camminare nel letto di un lago con i piedi che affondavano in un fango amorfo e molle. Arrivati sulla strada, fradici e infreddoliti, salimmo a fatica sul muro di cinta. Li aspettammo più di un’ora che quel gommone militare tornasse. Quando lo vedemmo arrivare era talmente carico di altre persone disperate, che nonostante la buona volontà di tutti non riuscimmo a salire.
Non ci restò che aggrapparci alle corde che correvano lungo i bordi di quello strano oggetto che avevamo visto solo nel mare d’estate e che a Pontedera, sul viale Piaggio, mai avrei pensato di poter incontrare.
In quel giorno e in quelli successivi la città era tutta percorsa da barche e gommoni usandoli per portare in salvo le persone facendole uscire dalle proprie abitazioni.
Con quello strano autobus, in quella assurda posizione, riuscimmo ad arrivare al Villaggio da dove scappai per arrivare a casa. Il mio amico lo accompagnarono da Raco.
La città era sommersa. Mi cambiai i vestiti fradici e sporchi, non ricordo bene quei momenti concitati. Il buio della sera arrivò presto quando un collega, una guardia credo, bussò alla porta e mi chiese di tornare in fabbrica perché, mi disse, bisognava “far partire un motore”, l’idrovora, per cercare di svuotare gli uffici dall’acqua. Riuscimmo ad arrivare e a fare quello che avevamo in mente e rimanemmo lì per tutta la notte riuscendo a togliere l’acqua dall’ufficio contabilità.
Quello che stavamo facendo noi, si stava ripetendo in tutti i reparti; tutti i lavoratori, per giorni, fummo impegnati a ripulire tutto, permettendo alla produzione di ripartire dopo poche settimane… con tanta fatica.
Dopo cinquant’anni, oggi, nel ricordo di quelle tormentate giornate si inserisce, limpida, la figura di Umberto Agnelli, da poco arrivato alla direzione dopo la morte di Enrico Piaggio avvenuta un anno prima nell’ottobre del 1965. Per lui, oggi, vorrei recitare una preghiera, perché anche lui con gli stessi nostri stivali di gomma contribuì a spalare il fango per far ripartire la produzione. L’acqua aveva livellato i ruoli: non c’erano più dirigenti e operai, padroni e lavoratori.
Tutti eravamo sulla stessa barca, mai metafora più appropriata, e tutti insieme stavamo dichiarando amore e attaccamento al nostro lavoro e alla nostra azienda. Vista dall’interno della Piaggio, mi sento oggi di ringraziare tutti i cittadini di Pontedera che furono veramente vicini a noi piaggisti, consapevoli tutti, che la città, le sue attività economiche, sarebbero ripartite solo se fosse ripartita mamma Piaggio.
Così fu, ed oggi dopo 50 anni possiamo raccontare una esperienza dalla quale siamo usciti tutti insieme, sporcandoci le mani, ma con l’orgoglio di aver contribuito a far rinascere la città”.
“Grazie a te amico Eugenio per avermi chiesto di raccontare questa storia di vita che ho vissuto” Enzo Rocchi.